L’arciere una favola dedicata a chi non smette di sognare
Mi piace scrivere favole, nel farlo sperimento una libertà totale, non ci sono confini, limiti, lucchetti ci sono solo infinite possibilità.
L’arciere.
«Voglio tornate a terra,» disse il ragazzo con un filo di voce «voglio sbarcare, non posso restare, mi dispiace».
Se ne stava lì, in piedi, con i pugni serrati davanti a suo padre, le braccia abbronzate e rigide lungo il corpo magro.
«Sono mesi che assecondo il tuo desiderio di vedermi diventare un pescatore, ma non è la mia vita. Non voglio più tuffarmi, immergermi, nuotare in profondità e sentire il fondale vischioso sotto di me, non più».
L’uomo guardò il figlio.
«Sei il miglior pescatore di conchiglie che io abbia mai incontrato, sai bene che senza il tuo aiuto vivremo momenti di difficoltà».
Il ragazzo accusava la serenità di quelle parole, tremava di freddo e di emozione. Sentimenti contrastanti si agitavano in lui.
«Quando sei nato, l’oracolo, tenendoti tra le braccia, disse che il tuo destino sarebbe stato legato alle conchiglie, al mare. La tua sorte fissata nel cielo, la tua crescita assistita da una spiaggia. Ci assicurò che saresti divenuto un uomo retto seguendo ciò che il cuore ti avrebbe sussurrato».
Il ragazzo si sedette sulle cime ammassate in un angolo del ponte, suo padre di fronte a lui, vicino alle reti.
La luna, un graffio d’argento sul nero dell’infinito.
«Ho creduto» disse l’uomo in tono pacato «di aiutarti offrendoti una possibilità, insegnandoti a nuotare contro le onde, a diffidare dell’orizzonte quando s’increspa, ad ascoltare i gabbiani quando gridano, ad osservarli mentre si affidano senza riserve alle correnti. Evidentemente mi sbagliavo». Fece una pausa passandosi una mano dietro la nuca per allentare la stanchezza. «Avrei dovuto ascoltare te, prima di credere ad un oscuro vaticinio. Se ciò che desideri è lontano da questa barca, allora vai, non sarò io a trattenerti, onoro gli dèi, ma amo mio figlio».
Il ragazzo si avvicinò al padre e gli mise le mani sulle spalle incrociando il suo sguardo umido. «Domani tornerò al villaggio, mi troverò un lavoro a terra e aspetterò ansioso più che mai il tuo ritorno a casa. Non essere triste, non stai perdendo il miglior pescatore di conchiglie mai incontrato prima, ma ritrovando un figlio oramai distante».
Dormirono scomodi e stretti, sballottati dalle onde lunghe che portavano al largo resistenze e paure ancora attaccate ai loro sogni.
La mattina sorprese l’uomo da solo, abbracciato alle funi, e il ragazzo in cammino verso casa.
Il villaggio dei pescatori fu svegliato dai canti delle donne e il vociare del mercato.
Il ragazzo corse fino a casa, trovò sua madre, le sue sorelle, un pasto caldo e silenziosa comprensione. Iniziò, adolescente, la sua vita da adulto e trovò un lavoro da falegname.
Imparò ad intagliare il legno, a piegare le forme, ad apprezzare la compagnia e desiderare la solitudine. Tutte le sere, uscito dalla bottega, si recava sulla spiaggia.
Si era costruito un arco e delle frecce.
Voleva diventare un arciere, seguire il suo cuore, scagliare dardi, fendere l’aria, mirare ad un bersaglio e colpirlo, se ne era capace. Tutte le notti calpestava la sabbia ancora tiepida per il ricordo del giorno e cercava nel cielo la luna.
Lei a volte sembrava sorridere, altre si nascondeva, altre ancora solo al mare mostrava il suo baluginare tremulo, negandosi allo sguardo del ragazzo.
Ma lui continuava a cercarla, a tendere l’arco nella sua direzione nel tentativo di raggiungerla, di farsi notare, colpendola. Il suo arco era piccolo e la corda poco tesa, il braccio ancora debole, la mira insicura, le frecce si libravano appena oltre le prime onde, per essere poi accolte dal mare.
La sera successiva il ragazzo trovava sdraiate sulla riva le frecce scagliate, le guardava, le raccoglieva, notava le piccole imperfezioni, le portava nella bottega, le faceva vedere al falegname ed insieme ne costruivano di nuove.
Capì che doveva migliorarsi, affinare le sue capacità, ascoltare i consigli del falegname, costruire un arco più grande ed avere una presa più sicura.
Decise di incontrare la luna una volta al mese quando, piena, respirava perlacea nel cielo distante; durante le notti che li separavano l’avrebbe spiata nuotando nel suo riflesso.
Nell’oscurità della baia sfidava se stesso. Bracciata dopo bracciata, rinforzava le spalle, i muscoli, le gambe. Tuffandosi nel buio liquido di quell’enorme ventre, fendeva, profanandolo, il mistero del mare. Cercava di raggiungere il fondale e, con occhi avidi, voltava lo sguardo verso la superficie per godere della luminosità opaca e debole che filtrava attraverso la massa liquida e lo separava dall’aria.
Era un agile nuotatore e sapeva resistere sott’acqua senza fatica. Molte volte aveva creduto di vedere tra le rocce del fondo creature meravigliose giocare a nascondino tra le alghe fosforescenti, seguito le invisibili traiettorie suggerite dai pesci e riportato a galla anfore e conchiglie.
Una notte riemerse con un enorme nautilo; felice nuotò verso la riva e lì, poté contemplarlo nella sua perfezione. Era la più bella conchiglia che mai avesse pescato: una spirale esatta, forma e colore di rara bellezza, se l’avesse venduta avrebbe guadagnato più di una settimana di lavoro, ma ne fece una faretra. Costruì delle frecce adatte ad entrarvi ed un arco proporzionato a scagliarle sotto gli occhi ammirati del falegname che con orgoglio lo guardava mentre intagliava con amore.
Il giorno della luna piena coincise con l’ultima sera calda dell’estate. Lavorò nella bottega tutto il pomeriggio con il medesimo impegno, ma fu congedato con qualche ora d’anticipo.
Ebbe così tutto il tempo per prepararsi con calma a ciò che lo attendeva. Si sentiva strano, a casa mangiò con appetito, condivise con sua madre i sentimenti che strisciavano in lui, mostrò il nuovo arco, ne illustrò i pregi, i difetti. Sua sorella lo prendeva in giro giocherellando con la faretra, mentre sua madre lo invitò a lavarsi, a riposarsi un po’ e a meditare prima di tentare di nuovo di colpire la luna.
Il ragazzo seguì il consiglio e si addormentò. Si rivide piccolo mentre muoveva i primi passi sulla spiaggia, impaziente di correre e tuffarsi tra le onde. Ricordò il primo viaggio per mare e le stelle accendersi nel cielo, la prima luna piena e per un attimo gli sembrò di udire la sua voce.
Una volta desto, raggiunse la spiaggia: era notte e la promessa del loro incontro era stata mantenuta. Lei era alta sopra l’orizzonte interrotto da onde successive, il vento soffiava con forza mugghiando, i marosi sbattevano violenti sugli scogli alle estremità della baia e creste di schiuma eburnee emergevano dal nero della superficie per poi scomparire di nuovo dalla sua vista. La pelle del ragazzo s’increspò al primo spruzzo salmastro. Estrasse dal nautilo tre frecce, le esaminò con cura, toccandole; le provò nella cocca, ne scelse una, rimase un tempo incalcolabile ad ascoltare ciò che il mare aveva riservato per lui, ciò che aveva ricordato, le storie che aveva custodito. Con gli occhi chiusi e il sentire proiettato oltre il suo corpo, ascoltò attento. Il mare parlava di uomini coraggiosi, di battaglie, di pirati, di guerrieri, raccontava di sirene e tritoni, di mostri marini a guardia degli stretti, di gorgoni e piovre giganti. Narrò di tesori ancora sommersi, di resti di civiltà dimenticate, parlò di Atlantide. Le onde, rompendosi ai suoi piedi, depositavano alghe e conchiglie per adornare il suo cuore. Custodi della storia avevano catturato tutti i segreti del mare, adesso intrappolati nei loro anelli.
Il ragazzo rimase in ascolto e solo quando sentì il ritmo del suo cuore adattarsi all’eterno ritorno delle onde, tese l’arco, sfoderò la freccia incastrandola nella cocca. Trasse un profondo respiro e, senza aprire gli occhi, rivolse il viso verso il bersaglio. La luminescenza oltre le sue palpebre chiuse gli disse dov’era. Tese la corda, l’arco cantò, la freccia sibilò nell’aria scossa.
Per un attimo sembrò che il vento tacesse, poi tornò a gonfiare il mare. Un’onda tiepida lambì i suoi piedi scalzi. Abbassò la testa, aprì gli occhi: di fronte a lui una madrepora. La raccolse accostandola all’orecchio e nuovamente udì la voce del mare. Quella voce che oramai aveva imparato a riconoscere, poteva già raccontare una storia appena udita: la storia di un ragazzo che con una freccia colpì la luna.